Fiero di come ho corso!

Fiero di come ho corso!

All’arrivo della tappa lunga, durata 65km, avevo le lacrime agli occhi. Non per la gioia ma per la consapevolezza di aver perso la prima posizione e la gara. Akbar, soprannominato “Zorro” amichevolmente per i suoi baffi e la “Z” che portava come logo sulla canottiera da gara gialla, mi aveva dato 40 minuti, sufficienti a costringermi ad inseguirlo durante l’ultima tappa di 35km e a dover recuperare 20 minuti di distacco.

Le prime tre tappe infatti, avevano mostrato la mia capacità a gestire il vantaggio verso gli altri, anche se Akbar guadagnava sempre qualche minuto. “Tanto nel tappone lo batterò, perché prima o poi crollerà” dicevo fra me e me. Purtroppo però, non è mai crollato. Ha corso ancora più forte di me e non ha mai mollato, meritandosi decisamente la vittoria.

Alla fin dei conti quindi, non ero più triste. Paolo, il mio allenatore che ha anche organizzato questa bellissima gara, mi ha detto che era fiero di me, che avevo corso come un campione. Le sue parole e quello che stavo per scoprire, mi hanno rinvigorito.

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L’ultimo giorno a Tehran, aspettando il volo di rientro per Milano, abbiamo scoperto qualcosa di incredibile su Akbar: correndo la maratona di Shiraz (città iraniana), ha chiuso la competizione sventolando la bandiera americana in segno di protesta verso la proibizione dell Repubblica Islamica nel permettere a corridori americani di gareggiare. Akbar è scomparso per una settimana e la sua famiglia, da allora, non gli ha più concesso di gareggiare. Ecco perché, in una casa di Tehran, sono esibite le sue medaglie. Se ne prende cura Mahsood, la prima donna ad avere il coraggio di correre una maratona in Iran (proibito alle donne). “Ma ora Akbar ha vinto. Ha riscattato il suo onore diventando un eroe e quindi potrà tornare a gareggiare, onorando la sua famiglia”. Il ritorno al suo villaggio, vicino alla città di Tabriz, sarà festeggiato sicuramente. Perciò dico: SONO FELICE DI ESSERE SECONDO PER AVER PERMESSO AD UNA PERSONA DI GUADAGNARSI LA LIBERTà DI VIVERE E DI FARE CIÒ CHE AMA, CORRERE.

La storia di Akbar mi fa partire dall’Iran con il sorriso sulle labbra. Per me sarebbe stata una vittoria sportiva, ma per lui è stata una vittoria per la vita, per non nascondersi più. E quindi: EVVIVA AKBAR!

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Purtroppo, durante la settimana le comunicazioni sono state sempre poche. Non si è riusciti a mandare messaggi di aggiornamento. La gara è stata strabiliante, l’organizzazione ottima. Paolo Barghini è rimasto solo ed si è fatto in 4 per fare di questa competizione un successo.

La prima tappa è stata molto dura. La partenza è avvenuta da un caravanserraglio, usato nei secoli precedenti come sosta per le carovane che attraversavano il deserto sulla via della seta. Da lì si entrava nel deserto vero e proprio, lasciando ogni segno di civilità. Il vento contrario ha messo allo stremo tutti, facendo diventare l’acqua poca e rallentando il passo. Akbar è crollato e Davide, il primo della gara, ha tagliato il traguardo 15 minuti prima di me. Ho sofferto molto, arrivando con crampi e mezzo disidratato. La pipì, segno d’idratazione, l’ho fatta solo il giorno seguente, per rendere l’idea della difficoltà. I 37km sono stati difficili ma mi hanno permesso di guadagnare 30 minuti sul corridore iraniano.

Il giorno seguente, su un tracciato di 30km, Akbar è andato come una scheggia sin dall’inizio e io sono rimasto sempre ad inseguirlo. Alla fine, ci ho messo poco più di 3 ore a terminare la tappa. Una ritmo decisamente alto per le temperature e le condizioni del deserto. Akbar mi ha preceduto di soli 7 minuti.

La terza tappa poi è stata davvero tecnica. Fango salato e quindi indurito, sabbia morbida e temperature elevate. All’inizio l’ascesa al Gandom Beryan, il famoso plateau dove si registrano ogni anno le temperature più elevate al mondo (più di 70C°, per fortuna era mattina e faceva fresco). La salita è stata veloce ma molto impervia, così come la discesa. Dopo aver attraversato un fiume di acqua salata (simile al Mar Morto), la gara si è velocizzata fino al CP1. Da quel momento il terreno è diventato difficile ma Akbar, ancora una volta non ha dato segni di cedimento. Poi, dal CP3 fino al caravanserraglio Nader, dove avremmo dovuto passare la notte, Akbar ha rallentato un po’, lasciandomi recuperare 5 minuti. Sono entrato nel campo 5 minuti dopo di lui, mantenendo il controllo della prima posizione. Davide intanto è crollato, entrando un’ora dopo e lasciando Akbar e me al comando da soli per la sfida finale.

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La tappa lunga inizia presto, alle 5 del mattino. La notte sovrasta ancora il deserto. Le pile frontali illuminano la partenza. “Partire piano e tenere il ritmo” questa è la mia tattica. L’unica possibilità, vedendo che Akbar è più veloce di me, è che crolli con il tempo. Lasciarlo cuocere e poi attaccarlo. Non ho altra scelta. Stare al suo ritmo significherebbe lasciarlo giocare e crollare. Non me lo posso permettere. Siamo partiti, io al comando. Dietro di me un gruppo di 4 runner che cercano di tenere il ritmo. Poi, sempre di meno. Alcuni cedono altri accelerano. Akbar parte con un altro corridore e staccano il gruppo. Io rimango al mio ritmo per evitare di fare il botto. Il sole intanto comincia a comparire dietro le rocce e a mostrare la bellezza del canyon che stiamo attraversando. Formazioni rocciose incredibili con un lenzuolo di sabbia che al solo vedere sembra innocuo, ma che sfianca i polpacci. Per evitare di correre sul morbido, cerchiamo di prendere le dunette indurite, ma molto irregolari, che mettono a dura prova le ginocchia. Dopo il CP3 anche il calore aumenta. 30km dei 65 sono andati. 3h30 di corsa e ormai il sole vuole mostrarsi, entrare in corsa e diventare un avversario. Il calore aumenta quindi subito, anche se sono solo le 9 del mattino. Akbar è partito, non lo vedo nemmeno in lontananza. Dopo il CP4, oramai, so che è passato più di mezz’ora prima di me. Sono deluso, ma non abbattuto. Mi rialzo, batto la mano sul tavolo e dico: “così no, combatti!”. Parto alla carica, ora o mai più. Gli ultimi 20km sono duri. Il canyon sembra non finire mai e soprattutto nessuna traccia di Akbar. Non vuole crollare. Io continuo imperterrito a correre, ad inseguire, non mi fermo mai. Il caldo e la sabbia mi sfiancano ma so che non posso arrendermi. Finalmente il CP6, ultima postazione prima della fine, a soli 5 km. Uscito da lì, una salita. All’orizzonte, la fine del Canyon e degli alberi. “Sarà là il campo?” dico fra me e me. No, infatti, tipica illusione del deserto. Le piante sanciscono la fine del canyon ma non l’arrivo. Attraverso ancora dei fiumi prima di entrare in una specie di giungla fatta di sabbia e alberi, quando finalmente scorgo le bandiere del campo. È finita. Sono felice e rammaricato per non essere riuscito nel mio intento. Akbar non è crollato e la vittoria è sua. Sarà dura recuperare negli ultimi 35km.

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Dopo il giorno di riposo, passato sotto la tenda per via del caldo torrido (sudare era dir poco), c’è stata l’ultima tappa cronometrata. Io inseguivo Akbar di 20 minuti. Ancora una volta, l’unica chance era che crollasse. Durante la tappa lunga si era creata sotto la sua pianta del piede una piaga, facendolo zoppicare. ma anche questo non l’ha fermato. La tappa era caratterizzata da dune e salita. Ma ancora veloce. Parto quindi in tromba, senza mezzi termini. Devo vincere. Le dune di 10 metri sembrano piatte per come le attraversiamo e per i primi 10 chilometri il nostro è un vero e proprio testa a testa. Nessuno molla. Poi, prima del CP1, Akbar aumenta. Per essere più veloce al CP prendo la bottiglia d’acqua che mi spetta e parto in volata senza riempire le borracce. Vedo l’iraniano in lontananza che fatica. “Ora lo recupero” dico. Ma lui non molla. Alla fine aumenta e mi stacca. So che non mollerà fino alla fine e so che mi spetterà definitivamente il secondo posto. Ma continuo a spingere. Termino la tappa in 3h12′, appena 10′ minuti dopo di lui. Ci abbracciamo e gli stringo la mano. Ha vinto giocandosela da campione, non mollando mai. Ha meritato. Io invece sono triste all’inizio. L’avevo tanto sognata la mia prima vittoria. Ma nulla. Non è ancora il mio momento, ma sono sicuro che arriverà.

 

Volevo ringraziare i migliori compagni di tenda e di corsa, che mi hanno fatto passare una settimana incredibile. a Giuseppe, Danilo, Alessandro, Alister e Davide. Tante risate insieme a Paolo. Grazie anche ad Aron per aver fatto un ottimo lavoro di cameraman… e poi… chi lo dice che in Iran non si possa essere fotografati con le donne? haha

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La tappa é andata bene, sono partito con il piede giusto ma gli iraniani partiti come razzi mi hanno tenuto in scacco per i primi 20km prima di crollare. Prima del CP3, a 28km, Davide mi ha raggiunto e mi ha superato. Nel frattempo sono entrato in crisi anche perche prima avevo finito l acqua e ho patito molto sulle gambe. Fortunatamente dal cp 3 al campo sono andato, sopratuttto camminando, fino al campo tranquillissimo. La tappa era molto dura, vento contro per 35km e quasi 40 gradi. Ma é solo l’inizio. Qui un macello, molti si sono ritirati, e i miei avversari diretti cominciano a patire. GO GO GO

Dal Lut Pippa

Cosa ha significato organizzare il progetto 4 Deserts…

Cosa ha significato organizzare il progetto 4 Deserts…

Quante volte negli ultimi tempi, tornato dal Sudamerica, ho sentito gente che mi ha posto la domanda: “E adesso? Vai a lavorare finalmente? Per rispondere una volta per tutte a questa scomoda domanda, mi piacerebbe approfondire il dietro le quinte di tutto questo 2016 che ho passato come atleta professionista (quindi pagato per correre, salariato).

Personalmente, ammetto di averci dato troppo peso all’inizio. Prendevo tale quesito come una provocazione bella e buona. Ma andando in profondità mi sono detto: “Chiaro, le altre persone non sanno come si svolge la preparazione alla gara, come si svolgono gli allenamenti e soprattutto come si organizza un anno del genere”. Per questo motivo mi piacerebbe approfondire alcuni aspetti indispensabili, che hanno reso questo anno incredibile.

Dunque, partiamo dalla base. La ricerca degli sponsor. Ovviamente, quando mi è balzata in testa l’idea di siffatto progetto, in pochi (o forse pochissimi) mi avrebbero dato un centesimo. Ma non perché non esprimevo fiducia, bensì perché era un progetto talmente strano, astratto e fuori da qualsiasi logica, che le persone a cui chiedevo un supporto economico tante volte semplicemente non lo capivano. Quindi, se vogliamo fare un grande passo indietro, il progetto e la ricerca degli sponsor sono cominciati all’inizio del 2015. Molti rifiuti, anzi moltissimi. Direi l’80%. Le risposte variavano dal “non rientra nel nostro progetto di Business” oppure semplicemente “non abbiamo i mezzi”. La verità è che, o non ci capivano niente, o semplicemente avevano voglia di investire in qualcosa d’altro. Nessun problema.

Continuando però, alcuni si sono interessati e così ho cominciato a crederci sempre di più. Il progetto cresceva e io da dietro spingevo e chiedevo. Fino a che belle occasioni sono saltate fuori. Ammetto che, in preda alla disperazione, sono passato dalla porta di dietro, come si soul dire. Ovvero, ho usato conoscenze per ricevere qualche sponsor in più, ma chi non lo fa? Grazie a Gian Vittorio per esempio, sono diventato atleta Mammut Svizzera. Ma senza di lui, uno sponsor tecnico non l’averi mai ottenuto. Insomma, tutto ciò per dire che è stato un lavoraccio trovare i fondi necessari per: pagare le tasse d’iscrizione, gli alberghi, le trasferte e il sostentamento durante la stagione.

Quindi, il progetto in se è partito un anno prima, con lo stabilire dove, quando perché, ecc… Poi, continuando, ho fatto leva anche su fondi privati. E quindi ancora campagne e serata per raccogliere fondi. Diciamo, una cosa che non mi sarei mai aspettato di dover fare, dal momento che non è nel mio carattere chiedere soldi ala gente. Ma per una cosa del genere e per amore della corsa, ho deciso di buttarmi.

Tutto questo però, non sarebbe stato possibile senza due persone al mio fianco. Ricky e Luca, due grandi amici che hanno sacrificato molto del loro tempo per creare i volantini, pagine facebook da aggiornare oppure organizzare serate. Ovviamente non si hanno i fondi a questi livelli per stipendiare qualcuno, ma sicuramente se lo sarebbero meritato. Quindi, un progetto del genere coinvolge direttamente anche altre persone. Da solo è impossibile gestire tutta l’organizzazione, a meno che non si abbiano i mezzi per farlo. Inoltre, per stampare sui vestiti, senza l’aiuto di Fabrizio Battaini, sua moglie e il suo caro collega Davide, sarebbe stato difficile sostenere costi elevati. Ma con il loro aiuto, sono riuscito a stampare il mio materiale ad un prezzo eccellente, se non quasi rubato.

Ma questa è la parte che possiamo chiamare economica e organizzativa. Riepiloghiamo: campagna sponsor, organizzazione eventi per raccolte fondi, gestione di pagine face book, sito internet e invio di ringraziamenti, più trovare due spalle su cui contare. Non riesco nemmeno a citare tutto per quante cose ci sono state da fare.

Ah beh, dimenticavo: organizzare le gare? A livello logistico bisognava decidere quando partire, dove andare, dove allenarsi e per quanto tempo. Quindi i costi dei biglietti, da prendere in anticipo, trovare posti affidabili e adatti all’allenamento e soprattutto mantenere un contatto costante con l’organizzazione per capire esattamente il materiale necessario, il luogo di ritrovo, ecc… . Sembra niente, ma in verità sono mesi e mesi di preparazione.

Passiamo all’aspetto sportivo: allenarsi, si, ma dove? Sei professionista? Bene, allora sfrutta il tempo per allenarti in luoghi che ti possano aiutare. Ed ecco che ho deciso di allenarmi prima di maggio in Giordania. Ma anche li, l’allenamento sulla sabbia era a 3 ore di macchina da dove vivevo. Ecco che il weekend era dedicato a quello. Si partiva per il deserto e si restava due notti, pensando solamente a correre. Lo stesso è valso nei 3 mesi fra il Gobi e l’Atacama, dove ho dovuto scegliere dei luoghi adatti e dove avrei potuto alloggiare a basso costo o gratuitamente (per esempio a casa di amici). Avrei potuto stare a casa, certo. Ma avrei perso vantaggi non trascurabili.

Tuttavia, l’allenamento non è solo fisico. Dal punto di vista fisico e logistico, Paolo Barghini, che mi ha seguito tutto l’anno e mi ha fatto fare una progressione costante, ha subito creduto in me e mi ha preparato a modo.

Ma il grande allenamento è quello mentale. La mente traina tutto. E qui Guya De Ambrosis è stata fondamentale. Grazie alle sue tecniche di ipnosi, meditazione e mental coaching in generale, mi ha aiutato a sorpassare momenti difficili, a enfatizzare momenti belli, a elaborare i miei problemi lasciati in sospeso con il passato, ecc… Ecco che l’allenamento prende già una forma ancora diversa. Se in più bisogna aggiungere il Pilates, che grazie al mio sponsor Studio Pilates di Lugano (Monica e Barbara Caroni che mi hanno insegnato), sono riuscito a fare da solo quando ero via, e pure la cura del corpo come massaggi sportivi, ceretta ecc… Il tutto prende una miriade di tempo. È un vero e proprio lavoro correre 1000 km in un anno. Un vero e proprio lavoro.

Quindi, si può dire si, che Filippo Rossi ha corso 1000km. Ma come li ha corsi?

Dimenticavo, la preparazione del sacco per la gara, che prendeva almeno 1 settimana di preparativi per capire esattamente cosa mettere. Le sue rifiniture, grazie anche ai sarti della Mister Minit Christian e Carlo. La scelta delle scarpe e la loro preparazione. Tutte cose minuziose che andavano sperimentate.

Correre 1000km in un anno, in 4 gare differenti, prende molto tempo. In più se aggiungiamo il tempo che ho dedicato a lavorare come collaboratore corrispondente per alcuni giornali (soprattutto il Corriere del Ticino), dalla Giordania al Cile, passando dai campi profughi vicino alla Siria e arrivando a parlare di Cannabis e relazioni fra Taiwan e Cina, non si può certo dire che io quest’anno non abbia lavorato.

Molte persone hanno lavorato CON me e PER me. Certo. Ma la parte principale l’ho fatta io. Tutte queste persone meravigliose mi hanno aperto le porte, ma ero io alla fine che dovevo correre. Senza togliere niente a nessuno.

Ci tenevo a chiarire brevemente, e di cose se ne potrebbero dire ancora moltissime, cosa significa organizzare un progetto del genere e far capire alle persone che non è uno scherzo correre in maniera professionale. Come non è uno scherzo fare qualsiasi attività.

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Che esperienza! Grazie a tutti!

Che esperienza! Grazie a tutti!

Sono sparito per molto, troppo tempo. È ora, ahimé, di fare un bilancio di questo ultimo periodo. Dopo l’Atacama mi sono spostato a sud verso la Patagonia, dove mi sono allenato per 3 settimane in compagnia del mio amico Ricky e del mio compagno del Grande Slam Funk.

Non mi posso soffermare troppo su tutte le cose che sono successe, se no mi dilungherei troppo. Posso però raccontarvi l’Antartide, posto sconosciuto alla maggior parte delle persone.

La partenza, prevista da Ushuaia il 18 novembre, sembrava non arrivare mai. Giorni di attesa, ultimi preparativi, adrenalina accompagnata da un po’ di normale nervosismo. Finalmente il giorno dell’imbarco. Al porto si scorge la MV Plancius, nave olandese che ci avrebbe accompagnato. Non gigante sembrerebbe. Il ritrovo è in un hotel del centro della cittadina. Tutti si rincontrano, bei momenti. Abbracci, baci, scherzi e il primo briefing dove ci viene spiegato come comportarsi sulla nave e cosa fare.

Sembra partire per una vacanza. Tutti sono rilassati. Gli Slammers sono tutti confidenti: “ormai lo slam è nostro, non sarà di certo questa gara a fermarci dopo quello che abbiamo passato”. In effetti, in meno di 7 mesi avevamo già percorso 750km di gara in 3 continenti differenti. Cosa sarà mai questa gara dove “addirittura” abbiamo doccia e letto incluso?

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Al porto ci imbarchiamo e prendiamo possesso delle camere. Che lusso! Letti comodi, doccia in camera, televisione e armadi. Il personale, molto professionale, ci spiegano come comportarci sulla nave e in Antartide. Intanto la nave salpa, sono le 18: direzione canale di Drake passando per lo stretto di Beagle. Il Canale di Drake è conosciuto per essere il mare più burrascoso del mondo. Francis Drake ci passò con il suo vascello nel XVII secolo. Vuoi dire che noi non ce la facciamo? Presto avrei però capito perché è così temuto. Il mare è sempre forza 4 o 5, molte navi sono state travolte e distrutte. Numerose persone ci hanno perso la vita. Ma questo nel passato. Oggi le tecnologie sono migliori e gli incidenti rari. Ma… come si dice in dialetto… “sa sa mai”. Il Beagle è calmo, non raggiungeremo il Drake prima della mezzanotte e dovremmo accorgercene.

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La prima notte nel canale non è tremenda anche se la nave balla parecchio e l’equilibrio tentenna. Colazione, pranzo e cena sembrano essere tutte attaccate. Difatti i due giorni necessari per attraversare lo stretto sembrano non passare mai. Nulla da fare, problemi a leggere o stare seduti in pace. Ma domenica sera finalmente si può scorgere terra! L’Antartide, finalmente! Ci siamo!

King George Island è la prima tappa, al largo della penisola. Il mattino, prima di imbarcarci per la tappa, sembra tutto molto nebbioso. Ma il tempo, qui, può cambiare molto velocemente. Infatti due ore dopo, al momento di sbarcare, la nebbia è sparita e sembra quasi che debba uscire il sole. Sbarcando sulla costa quasi non ci credo. Sto veramente per correre l’ultima corsa, quella che ho aspettato sin dall’inizio dell’anno. Quella che dubitavo di più perché non ero sicuro di riuscirmi a qualificare. Ma via tutti i pensieri e cominciare a concentrarsi sulla prima tappa: 13 ore di corsa su un percorso che all’inizio pensavo fossero 14km ma alla fine erano 11km.

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Si parte, The Last Desert è cominciata. Subito mi metto nel gruppo dei primi. Il percorso è molto nevoso e duro. La neve è ancora fresca ma è più o meno corribile. Prendo distanza da Tommy e Andrea presto, ma Kyle è troppo veloce e scappa quasi subito. Si crea una situazione per tutta la giornata dove Kyle prende sempre più terreno e io riesco a mantenere costante il distacco con gli altri due inseguitori. La giornata passa, io continuo a correre. Il sole decide di uscire e sciogliere la neve, facendola diventare ancora più bagnata. Disastro, le gambe soffrono. La seconda parte del percorso è invece più sterrata e verso sera è molto più corribile. Si possono scorgere alcuni pinguini e anche una foca che dorme. Ma si continua a correre. Verso le 7 di sera, ormai da 10 ore in gara, sono stravolto. Tommy mi recupera, Andrea è sempre dietro. Mi fermo per andare al gabinetto, nella base russa. Entro tutto bagnato, saluto il signore in russo e lui gentilmente mi indica il bagno. Esco e mi dicono che c’è ancora tempo per fare un mezzo giro. Via si parte. Ritorno, e mi rispediscono ancora una volta. Ritorno e finalmente finisco. Sono le 8.30. Abbiamo corso per 13 ore, ho percorso 87km. Kyle 91. Tommy e Andrea come me. Ritorniamo sulla nave per mangiare. Alle 23 finalmente posso andare a dormire, sofferente. Le gambe sono stanchissime, i tendini si sono infiammati. Devo trovare una soluzione.

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Il secondo giorno ci troviamo già su una seconda isola. Deception Island. Un vulcano. Anche questo un posto magnifico. Sbarchiamo presto. Dicono che si correrà per 10 ore. Sono già stanchissimo. Quando partiamo, le mie gambe sono ancora ferme, bloccate. I tendini fanno male. Dovrò resistere, e so che dovrò farlo per molto. Psicologicamente sono a pezzi quando scopro che sono dietro di molto e faccio molta fatica a correre. Ma avanzo e continuo a girare sul percorso da 3km. Finalmente, verso fine giornata, so di aver percorso 48km, 8 in meno di Kyle che continua al comando. Andrea conclude come me. Tommy più avanti e salta fuori un’ulteriore avversario, Frode. Questo norvegese è stato una delle persone meno sportive che io abbia mai conosciuto. Non lo nascondo, un vero e proprio imbecille. Ma è dietro di me, a 7km, e devo mantenerlo dietro.

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Il terzo giorno è stato forse il più massacrante. il circuito è di 1,5km. Tempo di gara almeno 10 ore. Significa che i giri saranno molti. Si parte, ancora una volta in difficoltà, rimango dietro. Ma ormai posso gestire il terzo posto. Due sono le persone che non devono passarmi davanti. Andrea soffre molto come me. Lui però con la caviglia e questo lo ritarda. Il norvegese invece, a furia di spingere per terra altra gente, si mantiene dietro Kyle e comincia a mangiarmi terreno, ma non ci riesce perché riesco a mettere a segno una giornata ottima. Soffrendo fisicamente molto ma riuscendo a correre e portare a casa 72km importanti. Circa 40km mi separano dalla fine della gara.

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Il quarto giorno si corre solo per 3 ore. La gara viene sospesa. Meno male, perché ero in crisi nera e ha spezzato il ritmo di tutti. Porto a casa 14km in più. Domani sono 26km da fare, fattibile e soprattutto ho sempre 7km dal quarto, che posso gestire. Questo pomeriggio è importante per me. Posso riposare e capire come organizzarmi l’indomani.

Il quinto giorno è stato l’ultimo di gara per me. Kyle, Tommy e io dovremmo finire oggi sicuramente. il percorso è duro. Salita e poi discesa, niente pianura e sopratutto terreni facili. Il primo giro soffro, fa male mi innervosisco. I primi fanno strada nella neve fresca. Dal secondo giro sicuramente sarà sicuramente meglio. Fa troppo male però. Non riesco a correre, cammino a malapena. Faccio anche il secondo giro e mi fermo dal medico. Deve mettermi una benda compressiva al ginocchio. Messa? Ok, riparto. Ma il ginocchio non è l’unica cosa che mi fa male. La caviglia sinistra è a pezzi, i tendini e il piede gonfio a malapena mi permette di muovermi. Mi fermo ancora dal medico. Tutti al checkpoint sono sopresi. Mi mette un’altra benda di compressione sulla caviglia. Mi rialzo e riparto. Per ora, sto tenendo dietro il norvegese. Il percorso è di 3,4km. Ottimo, mi mancano ancora 6 giri. Da quel momento in poi, non mi sono più fermato, sono andato avanti correndo come a più non posso. Arrivo all’ultimo giro, vedo in lontananza il norvegese che si avvicina. Ma tranquillo, dovrà doppiarmi prima e quindi non ce la farà mai. Salgo l’ultima salita e poi mi lancio verso la discesa come una freccia. Piango mentre corro, mi blocca la respirazione. Sono impazzito. Avanzo. L’ultima discesa è neve fresca pura, sembra che abbia i pattini, vado come una razzo. Dal fondo le urla che provengono dal check point che mi incoraggiano: sei terzo, Filippo. E soprattutto, sei slammer! Tommy e Kyle erano arrivato 4 giri prima di me. Arrivo alla fine, mi butto nella neve. Anzi, inciampo dalla stanchezza. Urlo come non mai. Rimango nella neve e poi mi alzo. Abbraccio tutti, piango come un bambino. È fatta, signori! È SLAAAAAAAAAAAAMMMMM!!!!!

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Risalgo sulla barca e vado a dormire, aspettando gli altri. Il giorno dopo avrei ricevuto le medaglie.

L’ultimo giorno per gli altri è frustrante. in 4 abbiamo finito e quindi possiamo concederci di rimanere sulla nave e dormire più a lungo. Gli altri sbarcano. la giornata è meravigliosa. Il sole illumina Half Moon Bay, che sembra essere un paesaggio extraterrestre. Io mi godo il panorama con una cioccolata calda sul ponte, guardando in lontananza gli altri che corrono. Poi verso le 9.30 ci portano sulla riva. Arrivato, mi sono travestito da pinguino. Io non farò il giro ma mi fermerò ad abbracciare ogni persona che passa. Mi fermo a 500m dall’arrivo e così faccio fino ad essere l’ultimo a tagliare il traguardo. Finito per davvero, mi mettono la medaglia al collo.

2016 4Deserts Antarctica. Photo: Myke Hermsmeyer
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2016 4Deserts Antarctica. Photo: Myke Hermsmeyer

Una coppia decide pure di sposarsi sul continente in presenza del capitano della nave. Si ritorna sulla barca poi per festeggiare e ripartire in direzione Ushuaia. Altri due giorni infiniti attraverso il Drake. La premiazione è avvenuta il giorno prima di sbarcare. Che soddisfazione. Non solo ho terminato in bellezza lo Slam, ma sono anche salito per la prima volta nella mia vita sul podio. Per me ha un valore immenso.

Tornati sulla terra, martedì 29, in molti ci siamo spostati a Buenos Aires per festeggiare. Sono stati 3 giorni bellissimi dove però la voglia di tornare a casa era più grande. Finalmente, arrivato a casa, posso dire di avere concluso la mia grande avventura durata un anno. Un anno incredibile dove ho conosciuto culture, persone e luoghi che mai avrei immaginato. Sportivamente sono cresciuto molto e mi sono innamorato ancor di più di questo magico sport. L’ultima volta che ero passato da casa era in luglio, quasi 5 mesi fa. Ciao, sono felice di essere tornato! Posso auto dirmi: benvenuto a casa Pippa!

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Una gara durissima, l’Atacama Crossing in dettaglio!

Una gara durissima, l’Atacama Crossing in dettaglio!

Si sapeva che il deserto di Atacama fosse duro. L’ho scoperto personalmente restandoci un mese a prepararmi. Un caldo secco che ti blocca le vie respiratorie, una sudorazione completamente allo sbando. Tutti fattori che non aiutano alla corsa insomma. Ma delle 3 gare di Racing the planet disputate finora, sicuramente non mi sarei aspettato che fosse la più dura. Ma riassumiamo brevemente ciò che è successo.

La settimana prima della gara per me  è stata come una gara. Ho dormito male e poco. Ero in preda allo stress e tutti volevano fare qualcosa con me, sicché ho patito molto la stanchezza e mi sono completamente deconcentrato dal mio obiettivo: finire la gara sano e fra  i primi 10. Insomma ripetere le prestazioni di Namibia e Cina.

Valentina, una massaggiatrice eccellente e amica, mi aiuta a recuperare con massaggi e taping. L’infortunio di inizio settembre è sempre latente e mi lascia sempre abbastanza sull’attenti. Olio di Marijuana, massaggi e tape, riescono però a contenere il danno. Sarò alla linea di partenza domenica in piena forma, si spera almeno.

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Sabato, prima della partenza per Rio Grande, primo campo, vado solo in un ristorante per mangiare l’ultimo vero pasto. Per ironia della sorte, incontro due ticinesi in viaggio per il Cile, Stefan e Clio. Stefan l’ho riconosciuto perché giocava a pallacanestro con un mio amico. Il mondo è davvero piccolo, incredibile. Dopo il mio ultimo piatto di pasta, si parte. Il primo campo è molto bello. Le tende bianche in mezzo a rocce rosse e il tramonto, rendono lo spettacolo davvero mozzafiato. L’indomani si parte, la tensione è alle stelle, ma bisogna riposare. 3300 m.s.l.m significano freddo. Difatti di notte la temperatura scende drasticamente e io patisco. So che tutta la settimana, dal momento che non ho portato nessun tipo di giacca pesante, soffrirò abbastanza.

10 minuti, 5 minuti, 3,2,1, via. Il conto alla rovescia sembra essere in secondi e non minuti. La prima tappa scatta quando io ancora stavo mettendo il numero e la mia 3tta (sciarpa giordana) era ancora nelle mie mani e non sulla mia testa. Ma chi se ne frega, bisogna partire, restare davanti e non perdere tempo prezioso. Scatto allora con le spille staccate, la sciarpa in mano e lo zaino slacciato. Disorganizzazione massima, ma riesco ad infilarmi dal retro, tagliando la strada a molti e a prendere i primi, posizionandomi dietro Tommy Chen. Con il passare dei minuti riesco ad organizzare il tutto. Nelle salite cammino, così posso attaccare le spille e mettermi la sciarpa. mi fermo un secondo per mettere le ghette sulle scarpe e poi via riparto. Tengo un buon ritmo sicché mi ritrovo su una piana e passo Jax e Iulian, diventando automaticamente terzo. L’altitudine sta giocando un brutto scherzo a molti e io so che ho un vantaggio. Terza posizione che poi terrò fino alla fine, senza mai mollare. La prima tappa si conclude in bellezza, scioltezza fisica. Sono contento, carico ma sono anche realista: i primi due avevano qualcosa in più e so bene che per tenere il loro ritmo dovrò sputare sangue. Ma chi ha detto che non voglia davvero farlo?

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Secondo giorno. Acqua, molta acqua. Ma non da bere. Acqua di un fiume gelido. 8km almeno, all’inizio. Si sa che sarà delicato soprattutto per le fiacche e per le ghette. Parto senza ghette, per evitare che si bagnino e si sporchino già troppo. I primi 10 km sono terribili. L’acqua fa perdere i sensi ai piedi da quanto è gelata e il percorso non risparmia nessuno. Un continuo zig-zag attraverso un rio in mezzo a un canyon d’una bellezza esilarante. Godi e soffri allo stesso momento, soprattutto quando bisogna saltare in una pozza e che quasi mi fa perdere l’equilibrio sotto la vista di tutti i fotografi. Il rischio più grande sono le storte ale caviglie. Il fiume è sassoso e molto forte, quindi bisogna sempre passare facendo molta attenzione ma senza nemmeno metterci anni luce. Al primo check point mi fermo per mettermi le ghette, ma non cambio le calze. Primo grande errore settimanale che mi porterà solo molti problemi. Dal 20km in poi, vedo le stelle. Le fiacche si fanno sempre più sentire. I km da percorrere sono ancora 24 e so che la situazione non farà che peggiorare. Che stupido! Erano solo 5 minuti per cambiare le calze. Non importa, devo andare avanti. Dopo il CP3, ultimo della giornata, mancano 10,4 km. Un’eternità. Il GPS non funziona e sono perso. Le fiacche mi sfiancano a ogni passo e il terreno duro, salato e completamente scostante mi costringe a stringere i denti ogni secondo. Ma non è finita. Il secondo grande problema comincia qui: lo stomaco. La nausea si fa sempre più forte. Penso che è dovuto al fatto che comincio a disidratarmi e non ho preso abbastanza sale, ma non è così e lo scoprirò più avanti. Finisco la giornata in agonia. Felice di tagliare il traguardo e riposare, ma sapendo che d’ora in avanti la gara sarà mentale. Una sofferenza che durerà ancora 3 lunghe giornate.

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Nella tenda medica mostro le fiacche. La nausea sparisce. Pulisco i piedi con il sapone. Brucia, mi viene da urlare ma poi penso che molta gente soffre di più e quindi sto zitto. le fiacche sono proprio sul tallone e diventeranno più grandi se non me ne prenderò cura. Vado in tenda stanco e nervoso. La tappa l’ho terminata all’8 posto, ma non mi interessa, il mio stato d’animo si abbassa.

La terza mattina è dura. Soprattutto quando devo mettermi le scarpe. Che male, ma come farò a continuare? Zitto e avanti, non piangere. Ancora una volta in ritardo (mi sono dimenticato di dire che anche il secondo giorno ero in ritardo). Ma questa volta non sono l’unico, anche Tommy e altri lo sono. Sarà la forte concentrazione di litio nell’aria del deserto di Atacama che ci rende tutti più rilassati. Si parte, primi 20 km super. I primi 6 in 5 minuti. Le speranze sono sempre accese fino a che devo fermarmi per un dolore allo stomaco. Provo a defecare, esce sangue. Ma sto meglio. Vado avanti e perdo il gruppo. Le forze diminuiscono. Dopo 5 km ancora un attacco. Defeco e ancora più sangue. Fa male. Lo stomaco è sottosopra. Io sono a pezzi. Fa caldo e ho i brividi come se avessi la febbre. Al CP dico che non sto bene ma so che al prossimo CP sono solo 6km. Decido di bere, sedermi un attimo e ripartire. Disastro. Dopo 2km sono in rotta totale. cammino a malapena. La salita è una pietraia orribile. Sono le 12, il sole picchia e non mi lascia in pace. Continuo a fermarmi. Mi manca l’aria e devo defecare, esce sempre più sangue. Che dolore, penso. Devo forse ritirarmi? Ho pensato per un minuto. Poi mi sono detto che i medici forse avrebbero potuto aiutarmi. E allora avanti tutta, forza Filippo, sei forte e ce la faremo. Il CP sembra non arrivare mai. Quando lo scorgo dopo una duna spacca gambe, mi sento sollevato. Il medico Greg è fortissimo. Mi fa domande e poi mi somministra alcune medicine. Mi fermo sdraiato. Altri 4 mi passano nel frattempo. Sono fuori dalla top 10, ma in quel momento voglio solo sentirmi meglio. Improvvisamente dico al dottore che sto bene. Si parte. Metto la musica. ultimi 4 km, durissimi dicono perché sono tutte dune sabbiose e salite ripide. Ma io sono di nuovo forte. Parto in 5a. Non mi fermo. Sembro un ghepardo, corro e non mi fermo. Le dune non mi spaventano, le scavalco con la mia falcata. Fino a che non riprendo tutte le posizioni perse e chiudo in bellezza dopo un arrivo durissimo, una salita sabbiosa in pendenza. Ma…tutto sommato… il paesaggio è sempre più bello.

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Il 4 giorno è decisivo. Arrivare bene in fondo, veloce, per riposare per la tappa lunga. Si parte, prendo la leadership per i primi 15km. Detto io il ritmo. Ho con me le pastiglie per lo stomaco. Corro senza nessuno davanti. Che emozione, ma sono tranquillo. Arrivo al primo CP, nel paesino di Toconao. Passo veloce senza fermarmi troppo. Neill, il nordirlandese secondo in classifica, mi sta alle spalle e mi attacca passandomi. Al CP 2 sono secondo, mantengo ma rallento parecchio. Dopo il CP4 sono tornato alla mia classica 6 posizione, ma comincio a sentire il dolore allo stomaco. Davanti a me 12km di Salar, un terreno orribile. Si parte, corricchio e sto dietro al gruppo, ma lo stomaco mi distrugge ancora, sto sempre peggio. All’ultimo CP mi fermo un attimo, bevo e mi siedo. Riparto quando scorgo un altro atleta dietro di me. Flemming, un danese, decide di correre insieme e finire. Parliamo. Mancano 8km. Ma per me è durissimo resistere, lo stomaco mi fa troppo male. Parte solo quindi. Io in crisi totale. Taglio il traguardo accasciandomi per terra. Mi portano alla tenda medica e mi fanno sdraiare dandomi una Coca Cola (che buonaaaaa). Non capisco il problema. Dicono che è acidità di stomaco. Ma io penso che è anche dovuto al latte condensato che metto nei cereali la mattina. Deve essere andato male. Mi riposo bene, ma devo anche pulirmi le fiacche e l’unghia persa. Ci mancava solo questa. “Riparo” i miei piedi e riesco a raggiungere la mia tenda. Mi sdraio e David, un compagno, mi da una delle sue colazioni per il giorno dopo. Per me, il latte condensato ha i giorni contati.

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Dormito male, molto male. Faceva molto freddo. Il materassino continuava a sgonfiarsi. Meno male che la tenda era fantastica. Che ambiente! Fuori fa molto freddo alle 7 del mattino. 74km davanti a me per terminare la terza gara. So benissimo che dovrò lottare con il cuore. Parto tranquillo, i primi 15km sono devastanti. Ancora Salar, ancora pozzanghere, ancora terreno spacca piedi. Dopo si comincia a correre su terreni migliori. fino al 30km sono in panne totale. Soffro, corro poco e cammino molto. È solo quando passo il CP3 che mi riprendo. 10km al CP4, andiamo. Sarà lunga, il Salar diventa bianco, la luce del sole riflette dal basso. Prima del CP c’è una duna altissima ma la si scala senza difficoltà. In questo pezzo recupero almeno 10 posizioni, rientrando facile nella top 10. Al CP4 vedo Jax in difficoltà ma lei è un leone e non molla mai. Riparte. Iulian ha 20 minuti da recuperare per mangiarmi la posizione, e cerca di distanziarmi. Ma io sono in forma e li passo entrambi. Fino al CP6 tutto benone, corro ascolto musica e mi godo il panorama. So che al CP6 mancheranno meno di 20km e tutto sarà finito. San Pedro sarà alle porte. Solo che uscito dal CP6 ho cominciato a soffrire. Le gambe hanno risposto male, il dolore è salito e soprattutto lo stomaco è peggiorato ancora. Iulian mi recupera, così come Jax. Passo al CP7 in modo disastroso. Mi fermo, prendo un antidolorifico e mi sdraio. Riparto sapendo che mi mancano solo 9km. Ogni passo sarà per avvicinarsi. L’ultimo scorcio è nella famosa valle della luna, spettacolare. Orde di turisti ti fotografano chiedendosi che cosa tu stia facendo. Non mi interessa, voglio il campo, voglio la medaglia. Riconosco il luogo e so che non mancherà molto. Ma sembra infinito. Finalmente la deviazione dalla strada principale mi porta verso il campo. È fatta, che emozione. La tappa che più avevo temuto è passata. Festeggio, abbraccio tutti, so che ormai 8km mi separano da San Pedro, dal cibo, dalla birra.

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Il giorno di riposo è noioso, come al solito. Poco da fare ma sempre poco riposo perché bisogna organizzare molte cose. Durante la gara Scott e Molly, due fotografi che hanno seguito anche Jax e Thanh, un’atleta vietnamita, hanno seguito anche me. Fra di noi è nato un bel rapporto e hanno fatto un ottimo lavoro. Il giorno di riposo abbiamo dovuto organizzare molte cose, sicché non ho riposato molto. Andare a dormire è stato un incubo. La mattina sembra non arrivare mai. Ma che ci si vuole fare…

Si parte, pronti partenza e viaaaaa… a San Pedro. Parto come un fulmine, prendo la testa, ma vengo sorpassato prima. Entro a San Pedro come 5. Si arriva in piazza. Arrivato vicino all’arrivo Leila ha messo un cartello con scritto “Vai Pippa, sei il migliore”, che accoglienza! Era come arrivare a casa. Leila mi ha aspettato e mi ha portato delle birre. La pizza era offerta, che buono. Mi sono goduto la festa tutto il sabato, bevendo mangiando e la sera ballando. Ho lasciato San Pedro con il cuore in gola domenica sera. Troppe le emozioni vissute in così poco tempo. Ma la vita è così, si prende per poi lasciare.

Una medaglia meritata fino alla fine, sofferta e conquistata con il cuore! Sono estremamente soddisfatto e so che ora manca solo una gara fra me e il mio traguardo!

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#PIPPA

Da Panama alla gara, ricapitoliamo!

Da Panama alla gara, ricapitoliamo!

Le ultime settimane sono state piene di emozioni. Ricapitoliamo.  Dopo gli Stati Uniti sono stato accolto a Panama da René e Veronique. Che dire, ho passato 5 giorni da re, viziato dalla loro gemtilezza e dalla bellezza delle cose che visitavo.
Ho passato parecchio tempo con Carmen, la sorella di Veronique. Anche in visita, ci siamo fatti compagnia e ci siamo intesi bene. Intanto la piccola Asia, figlia di René e Veronique che avevo solo visto appena nata, è cresciuta e comincia a parlare. Un caratterino. A completare la bella famiglia infine, Coco e Cuba, due barboncini spettacolari, energici e molto amorevoli.
Durante i giorni passati a Panama ho potuto scoprire posti fantastici, come l’arcipelago delle isole San Blas, sul mar dei Caraibi. Un’autentico paradiso. Oppure il famoso Canale, recentemente ampliato e che mi ha affascinato come mai avrei pensato.
A completare una visita ticinese è stato l’incontro con Franco e Daniela, una coppia di ticinesi anche loro “expat” in terra tropicale. Insieme a loro si sono fatte delle uscite molto divertenti.

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Insomma, sono partito per il Cile molto felice e con il sorriso sulla bocca dopo aver rincontrato queste persone meravigliose.
Sportivamente parlando, ho corso poco. Una volta sono uscito con René, che con Veronique sono entrambi maratoneti. Ma il calore e soprattutto l’umidità ti distruggono.
Ma la missione più importante arrivava ora, decollando dall’aeroporto di Tocumen direzione Santiago e poi San Pedro de Atacama, piccolo paesino nel mezzo del deserto più secco del mondo.
È come atterrare su un altro pianeta. Non te lo aspetti ma per orientarti ti serve un po’ di tempo. Le viuzze sono poche ma simili, attorniate da case di fango preservate dalla municipalità per preservare il patrimonio culturale. Durante la prima settimane della mia permanenza (visto che avevo deciso di fermarmi un mese per allenarmi) ho conosciuto tutte le persone a me più care a San Pedro. Ricardo, un ragazzo di Vina del Mar che lavora come cameriere, mi introduce alla vita del paese. Leila e Maria José (Coté per gli amici), mi hanno poi accolto a braccia aperte ed è nata un’amicizia bellissima.

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Sempre durante i primi giorni però, ho avuto paura. Esco a correre, torno con un tendine della caviglia tutto infiammato. Non so che fare, panico. 3 settimane per sistemare tutto, e chiaramente per correre ed allenarmi. Non mi andava giù che fossi andato prima e non potessi sfruttare il vantaggio.
Fortunatamente tutto è andato a posto in pochi giorni, dopo massaggi (grazie a Rosemarie e Nacho) e riposo. Sono tornato a correre come prima, ma sempre con timore.
I luoghi sono magici, belli, inspiegabili. Corri con panorami incredibili, vulcani che ti contemplano, entrano nella tua anima cercando di leggerti. Tu ci provi a leggere loro ma sono enigmatici. Il vulcano Licancabur (che scalerò verso la fine, 5917m.l.m) ha un’eleganza che ti colpisce al cuore, ti toglie il fiato e non ti permette di guardare altrove. È lì fermo, piazzato come un re sul suo trono e circondato da altri vulcani, suoi vassalli (anche se più alti).
Mi frequento molto con Leila, e con le sue amiche e amici facciamo molte attività che mi svagano un po’ dal mondo della corsa.
Brendan e Jareb, due compagni di corsa, arrivano dopo due settimane. Il loro arrivo segna una nuova tappa. Con loro scalerò un vulcano e farò un paio di uscite a corsa. L’altitudine ormai non dovrebbe più essere un problema.

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L’ultima settimana prima della gara è stata delirante. Praticamente non ho riposato. C’erano sempre molte cose da fare. Riparare lo zaino (grazie a Idania), cucire i calzoncini (grazie Leila), preparare il cibo sottovuoto (grazie Odette e il ristorante Agua Loca), andare a comprare piccolezze.

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E chiaramente, ho dovuto metterci in mezzo un viaggio in Paraguay.
Per me il paraguay era un’enigma. Pia, un’amica di anni addietro che avevo conosciuto negli Stati Uniti mi invita a passare alcuni giorni as Asuncion per farmi conoscere il suo paese. Parto giovedi per tornare lunedi (prima della gara). Paolo, il mio allenatore, dice che sono una testa di cazzo (haha con affetto ovviamente). Confermo, lo sono, ma se non lo fossi non farei quello che sto facendo.
4 giorni per innamorarsi di un paese? Possibile. Quello che mi ha fatto realmente innamorare del Paraguay è stata l’accoglienza di questa gente. Anche li, trattato come un re, viziato di regali e accolto come un figlio. Che dire di più? Pia è stata un’ottima guida turisitica. Chiaramente mi ha fatto piacere sentire le sue storie, le sue battaglie sociali in un paese confuso, parlare con lei di argomenti interessanti culturali e politici ma anche di vere proprie cazzate.
Anche dal Paraguay sono tornato felicissimo. In Cile, ormai casa, mi aspettavano tutti, e soprattutto Leila. Ritornato a ‘casa’ mi aspettavano giornate lunghe di preparazione del materiale.

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Arrivata la gara, ero stressatissimo perché ero talmente rilassato con i tempi che il giorno prima della gara ero ancora in alto mare. Ormai introdotto nella vita quotidiana del paesino e affascinato dalla gentilezza della gente, mi perdevo ore e ore. Si vive una volta sola no?
Ma mai ho dimenticato il mil compito. Terminare l’Atacama Crossing per vedere l’atto finale del mio slam. Ma non terminarlo e basta, terminare fra i primi, come in Namibia e in Cina.

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Ma questa è un’altra storia. Ho riassunto il più possibile un mese e mezzo di attività intensa. Concludo dicendo che per me San Pedro de Atacama è diventata come una seconda casa, così come Asunción, Panama e tutti i posti che ho avuto modo di visitare. Il mondo è casa per chi sa apprezzarlo. Le energie positive aiutano in questo.

Pippa

Correre per i migranti, per degli eroi, un dovere

Correre per i migranti, per degli eroi, un dovere

“El Maraton del terror” lo chiamerei. Io corro i deserti come loro, loro li attraversano a tutte le età, senza aiuti. Quando arrivano ai punti di rifornimento non c’è nulla da mangiare o bere, solo poliziotti. Quando tagliano la linea del traguardo, non c’è un premio, solo gente che sta alla larga o che li guarda con diffidenza. Ma a loro non interessa. Sanno di essere eroi nel loro cuore.

A cosa siamo ridotti? Litighiamo perché non abbiamo una coscienza. Ci sono voluti 250 coraggiosi perché arrivasse un richiamo della natura forte a una situazione intollerabile. Quale popolo non ha deciso di migrare? Noi ticinesi? A me pare di no… E non venite a dire che è storia o che è più complicato perché sono le risposte di chi la storia non la conosce.

A quelle persone che continuano a nascondersi dietro i propri privilegi, difendendo ideali come la libertà, la democrazia, la Svizzera tollerante e rispettosa dell’altro, vorrei tanto poter far cambiare idea con una semplice frase. Ma questo non è possibile. L’egoismo, il materliasimo, la paura del nulla e la frustrazione non ha limiti e quindi si può cmbattere solo con i fatti, con prese di posizione decise.

Anche se le poche “sprayate” o i fumogeni gettati a terra sono come al solito esagerazioni di qualche persona che si fa coinvolgere troppo dalle situazioni, la manifestazione di Chiasso avvenuta pochi giorni fa è perfettamente coerente e giustificata.

A Chiasso, insomma, qualche persona che possiede ancora un briciolo di umanità ha deciso di schierarsi e di difendere delle persone che cercano solamente un futuro degno. Una dignità che per noi è intoccabile, ma non sembra esserlo per loro.

Mi trovo lontano, dall’altra parte del pianeta. Ma quanto avrei voluto esserci. Lo ammetto. Oggi mi schiero anche io. Mi schiero contro una Svizzera ipocrita. Contro un continente europeo intollerante. Contro la mancanza di rispetto e l’ignoranza. Perché pensate che queste persone scappino? Se potessero, non se ne starebbero beate nelle loro terre invece di attraversare mille pericoli e pagare oro?

Sono giunti fino alla fine. Sono eroi. Eroi per aver sopportato ingiustizie da ogni lato. A casa loro, durante il loro tragitto infinito e poi ancora in un Europa che del rispetto non sa nulla. Anzi sapete che cosa? L’europeo del rispetto non ne ha MAI saputo nulla, ma non ha mai nemmeno espresso il volere di conoscerlo. Insomma, anche se non posso rinnegare le mie origini, mi vergogno di essere europeo, di essere parte di una comunità di finti “sapientoni” e avvocati dei “diritti dell’uomo” che poi alla prima occasione dimostrano la loro vera identità.

Forse anche io sono così. Tale quale come la maggioranza degli europei. Ma almeno cerco di farmi un’esame di coscienza. Di guardare oltre. Il fatto di aver visto la miseria, di aver sentito storie di migranti e di averli incontrati mi ha forse aiutato ad aprire un po’ gli orizzonti. E quindi oggi, almeno a parole, voglio combattere. Voglio schierarmi.

Se io sto con Lisa Bosia, sto anche con i manifestanti di Chiasso. E ho deciso quindi di correre le ultime due maratone in nome di chi di chilometri ne fa centinaia in più di me, in condizioni peggiori e non ha nemmeno qualcuno che lo ascolta. Sono eroi, sono persone incredibili che dimostrano quanto l’essere umano meriti di aver un’eguaglianza. Sono spiriti di luce che chiaramente nemmeno passano attraverso il buio totale europeo.

Liberté, égalité, fratenité? Cosa? Non ho capito bene…. Questi valori, se mai sono veramente esistiti, sono spariti. Finché gli europei pensano che questi valori siano solo per loro, non valgono nulla.

Facciamoci un’esame di coscienza. Miglioriamo noi stessi per migliorare il mondo. Cerchiamo la luce, non l’odio. Apriamo le porte all’altro, alla diversità, a queste persone che cercano solo una cosa: l’amore e la fratellanza.

AIUTO! URGENTE! IL RUANDA SOFFRE! “Murakoze”, l’acqua è la vita!

AIUTO! URGENTE! IL RUANDA SOFFRE! “Murakoze”, l’acqua è la vita!

Non si dimentica una missione. Soprattutto quando la necessità è massima. L’acqua. Semplice elemento tanto caro all’uomo. Beh, caro in entrambi i significati. Ancora milioni di persone hanno accesso all’acqua pagando un prezzo troppo alto. Vivono in territori ostili all’uomo e in paesi senza disponibilità. Sono colpevoli di essere nati dalla parte sbagliata del mondo.

Oggi, con il cuore in mano, vi chiedo di rendere altre persone in più felici. Mi permetto di intromettermi in un blog che dovrebbe essere composto solamente da belle esperienze. Ma questa è la mia missione. Sono troppo compromesso e coinvolto.

Se mai vi piacesse l’idea di aiutare a facilitare l’accesso all’acqua, ponetevi il seguente quesito: “come potrei vivere senza acqua in casa?”. Lasciamo perdere il bere. Ma vivere senza acqua significa non lavarsi, non poter lavare i vestiti, non poter cucinare, non lavarsi i denti, andare al bagno in un buco, … Non è divertente.

Perché dico questo? Il Ruanda soffre da qualche mese a questa parte di una siccità acuta. Soprattutto nella regione orientale, principalmente composta da savana, la popolazione è allo stremo e soffre molto per la mancanza dell’oro blu. Inoltre, come se la povertà assoluta non bastasse, molti rifugiati ruandesi espulsi dalla Tanzania e privati di ogni loro avere non fanno che aumentare il numero di persone che necessitano aiuto in questa regione.

Il mio è un appello a tutte le persone che stanno amando questo mio progetto, ma anche a quelle che non mi amano o che non sono interessate. È un appello all’essere umano, a quella coscienza presente in ogni persona. Quell’istinto che tanto viene nascosto nella nostra società. L’istinto di fratellanza verso gli altri.

AIUTATE L’ASSOCIAZIONE INSIEME PER LA PACE A RACCOGLIERE FONDI PER NUOVE POMPE IDRICHE, AIUTATE A DARE LA VITA, A PERMETTERE A QUESTE PERSONE DI AVERE ALMENO UN MINIMO DI DINGITÀ. LO SO CHE LE VACANZE SONO FINITE, MA UN PICCOLO CONTRIBUTO È POSSIBILE, OGGI!

Per donare è semplice, qui sotto le coordinate:

Associazione Insieme per la pace

6952 Signôra

Svizzera

 

IBAN CH75 0900 0000 6903 2616 5

CCP: 69-32616-5

Sono molte le persone che oggi vi direbbero “MURAKOZE MZUNGU” (in kinyarwanda, “grazie bianco”, non da leggere in chiave negativa ovviamente). Ma non solo loro vi ringraziano, l’associazione vi ringrazia e chiaramente io vi ringrazio con il cuore in mano, sapendo che anche nella difficoltà, alcune persone fanno uscire dalla loro anima l’istinto di fratellanza!

GRAZIE! MURAKOZE!

Un ringraziamento agli Stati Uniti

Un ringraziamento agli Stati Uniti

L’ultima volta che mi sono trovato alla frontiera americana  è stato nel 2013. Allora mi ero recato nella grande Mela per la prestigiosa maratona. Ma New York, come dicono in tanti, non riflette veramente gli Stati Uniti.

Questa volta però, sento proprio di voler ringraziare gli Stati Uniti. Sono partito da Los Angeles con il sorriso, perché ho visto la volontà di un paese di cambiare. Non parliamo di politica per una volta, ma di norme sociali, di sensibilizzazione ai cambiamenti e ai problemi che circondano la società.

Se all’entrata del paese sono stato bloccato dalla poliziotta di frontiera che, dopo aver saputo che studiavo scienze politiche (oddio che avevo studiato…), mi ha fermato 40 minuti a parlare di filosofia e di educazione (con la gente che aspettava dietro guardandomi come se fossi un clandestino) e bloccando l’intero sistema dei computer, l’accoglienza non si è fermata lì. Anzi, ogni luogo in cui sono andato sono stato accolto, ospitato, aiutato. A ogni domanda, una risposta. A ogni preoccupazione, una soluzione (tranne quando Brendan Funk si è perso nelle montagne… la risposta è stata quindi “I am sorry for you man”…).

Incontri mitici, persone riviste dopo tanti anni e che sembrava aver rivisto la sera prima al bar. Amici sportivi che mi hanno aperto un mondo… Insomma, che dire se non un grande GRAZIE a queste persone?

A San Diego, appena arrivato, ho rivisto Anna, la mia vicina di casa e grandissima amica. Simona, sua amica in vacanza con lei, mi è piaciuta moltissimo e con loro ho passato due bellissime giornate a ridere e scherzare (anche se Simona, quando mi ha detto che dovevo portarla all’aeroporto, mi ha quasi fatto fare un incidente ritornando, perché non riuscivo a tenere gli occhi aperti). Poi l’incontro con Cassandra, ex-compagna di Erasmus in Spagna che ora vive a Tijuana (in Messico, alla frontiera con gli Stati Uniti) e i ricordi delle follie passate (anche se le follie non abbiamo smesso di farle anche negli USA).

Infine, dopo un infinito ed eterno “cazzeggio” durato ben un mese dopo la fine della Gobi March, l’arrivo in Colorado, dove ho incontrato Steve e Tomomi che mi hanno ospitato nel loro Chalet di montagna vicino a Boulder, cittadina conosciuta anche come la “Mecca del running” (senza offesa per i più ferventi musulmani). L’arrivo di Brendan, mio compagno di corsa, è stato poi un “highlight”. Insieme per 2 settimane a vagare per il Colorado, siamo riusciti ad allenarci insieme solamente quando abbiamo scalato il Mt. Sopris vicino ad Aspen. Le altre volte o uno dei due si perdeva, oppure l’altro manco si presentava al punto di partenza al mattino perché il GPS lo aveva portato fuori pista.

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Io e il buon Brendan, ce la siamo spassata mica male. La seconda settimana ci siamo spostati nella valle di Aspen, dove i mitici Dan e Erin ci hanno ospitati su un materasso gonfiabile per una settimana in un appartamento piccolino. Ma la loro generosità andava oltre e ci dicevano “please, stay as long as you want”. Che bello vivere così, in un posto da mille e una notte. Devo tanto a Erin e Dan. Erin l’ho conosciuta in Namibia e non appena ha saputo che sarei passata dalle sue parti, era al settimo cielo.

Gli allenamenti sono sempre andati benissimo, in posto incredibili.

Poi, le mie ultime due settimane, mi sono spostato in Wyoming, a Jackson Hole, casa dei Tetons e del parco di Yellowstone. Jax e suo marito Lance, con il loro adorabile Loki (un pastore svizzero bianco?), sono stati come una famiglia. Mi hanno comprato un materasso gonfiabile comodissimo che mettevo in mansarda. Jax mi ha aspettato per un “training camp” che mi ha letteralmente distrutto (con tanto di svenimento in funivia). Io e Lance, persona piacevolissima e fotografo freelance, ci siamo subito presi in simpatia. Anche lui ha corso e camminato con noi, ma alcune operazioni al ginocchio non gli permettevano grandi sforzi. Dopo due settimane mi sentivo come a casa. Jax e Lance sono poi dovuti partire per lavoro, lasciandomi la casa libera per qualche giorno (chiaramente i party non avevo nemmeno la benché minima intenzione di organizzarli, tranquilli ragazzi). Ho dovuto anche prendermi cura del piccolo Loki, che ho un po’ strapazzato su e giù per le montagne.

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Sono partito, direzione Los Angeles, triste, ma consapevole di aver passato un mese incredibile. Ma non era finita. Jared, il fratello di Erin che vive a Long Beach (Los Angeles), mi ha ospitato insieme alla sua ragazza Candy. Cassandra è salita ancora da Tijuana per darmi un ultimo saluto prima della mia partenza per il centro america, a Panama. Jared mi ha mostrato il suo luogo di lavoro: WEEDMAPS. Diciamo un sito di informazioni sulla Marijuana con tanto di mappa interattiva per trovare medici, negozi e fornitori di prodotti derivati dalla Cannabis in tutti gli stati degli USA dove la Marijuana sia stata legalizzata sia a livello medico che ricreativo. L’ho provato personalmente, e senza muovere un dito, mi hanno portato il sacchetto con le *medicine* direttamente all’appartamento. Che vuoi di più?

Una notte, ed era ormai tempo di partire. Ho preso la mia Fiat 500 affittata (vi giuro che guidare una 500 di fianco ai bestioni americani, fa paura) e mi sono diretto all’aeroporto. Questa volta per partire veramente e lasciare gli States, direzione Panama, dove Veronique e René mi aspettavano… ma questa è un’altra storia.

Che dire se non GRAZIE a tutte queste persone spettacolari che ho incontrato. Gente che si è interessata alle mie avventure e che mi hanno aperto le porte del loro mondo. Ho visto una società in continua evoluzione. Gli stereotipi che si hanno sugli americani possono valere in parte, ma è comunque vero che su molti temi sono molto più avanzati che la buona vecchia Europa, che si crede sempre la più liberale. Sono partito felice di aver fatto quest’esperienza.

THANKS USA!

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Una bella storia da raccontare, grazie Taiwan! #Pippa

Una bella storia da raccontare, grazie Taiwan! #Pippa

Sono le 8 di sera a Taipei, capitale della Repubblica cinese di Taiwan. Già al controllo passaporti mi accorgo della differenza con la Repubblica popolare. La gente molto cordiale, tutti che parlano inglese… insomma un altro mondo seppur la lingua sia sempre il cinese. Esco dal ritiro bagagli e mi vedo di fronte 3 bellissimi cartelli insieme a due ragazze (Ares e Etta, collaboratrici di Tommy) che mi salutano sorridendo. Io, da buon turista cinese chiedo: “posso fare una foto?” – haha (mi metto a ridere pensando che di solito sono proprio gli asiatici a chiederlo) – ma riesco a scattarne una e male. Lo so, mi sentivo un pirla.

welcome

La conferenza stampa è l’indomani, quindi ho tempo per riposarmi. Ares prende un taxi con me. il taxista si intromette nella discussione dicendo che devo visitare molte cose. Lei invece, molto organizzata, mi spiega lo svolgimento della giornata e mi da alcuni regali (foto, braccialetti e persino una lampada da campo molto utile).

Il giorno dopo un taxi mi porta alla conferenza stampa, già incominciata da tempo, ma che mi vedrà protagonista insieme a Tommy dopo circa 40′ dall’inizio. Nessuno sa che sono qui. Solo Ares e Etta. Il clima fuori è afoso, molto caldo. insomma, un forno vero e proprio. Non essendo abituato a questo clima, per non sudare è essenziale per me passare da edificio a edificio.

Aspetto una ventina di minuti fuori dalla sala stampa. Etta esce di corsa e mi dice “vieni vieni” in cinese (non parla inglese, ma si fa capire). Entro nella sala senza accorgermi della gente presente, ma capisco che sono tante persone dal “ohhhhhh” che sussurrano non appena varco la porta. Insomma, chi si aspetterebbe mai un malato mentale che passa mezzo mondo per fare una sorpresa a una persona di 15 minuti? Io queste cose le ho fatte, più di una volta. ok, forse non fino a Taiwan, ma comunque. Questa è una bella dimostrazione di amicizia.

Tommy è girato verso il suo amico che fa da mediatore. In cinese gli sta spiegando chi sono. Io devo prendergli la mano e lui indovinare. Prima di me sono passati suo padre e poi il suo allenatore. Non mi riconosce. Tutti ridono. Poi comincia a toccarmi, palparmi le spalle, le braccia, le mani, per cercare di riconoscere. Improvvisamente dice “non pensavo avessimo questo budget… mmmh… è impossibile!”. Poi lo speaker “questa mano la conosci molto bene” ma lui non crede che possa essere io. È troppo complicato. Ma quando apre gli occhi, ecco che si gira e mi vede. Fa un balzo all’indietro, il suo sorriso fa allagare la sua bocca quasi fino alle orecchie. Comincia ad urlare, solito di Tommy che urla sempre ( in positivo). Poi l’abbraccio. che emozione. Non ci crede. Io continuo a ridere.

prima sopresasopresa!speech 1

Il mio speech non lo ricostruisco, ma il succo è questo: sono venuto dall’Europa fino a qui per dimostrare il valore di un campione come Tommy, che ha saputo rialzare la testa in un momento difficile e che mi ha dimostrato di avere imparato qualcosa. Inoltre per ringraziare Taiwan per il grande entusiasmo con il quale ha vissuto il mio gesto umano.

io speech

Bello, davvero emozionante. Dopo la conferenza, le interviste. I giornalisti braccano Tommy, io però sono tutto per i fans del corridore taiwanese. Foto dopo foto, autografi. Poi le foto insieme a Tommy e ai suoi fans. Ecco che passiamo agli autografi. Gente che si fa autografare il libro, ma anche portafogli, telefonini. Insomma, ci ho pensato su un attimo prima di buttarmi con l’indelebile nero.

Uno degli sponsor di Tommy, I-Mai, mi pone pure dei fiori. Che bel gesto. I genitori di Tommy vengono da me a ringraziarmi tanto. Mi sento onorato. Nel Gobi non ci eravamo parlati, ma ero sicuro che non ne avevano avuto l’occasione.

Poi tutti a cena, con i genitori e gli amici. Anche a Taiwan, come in Cina, molti ristoranti buoni si trovano nei centri commerciali. Insomma, sotto la sala conferenza. perfetto. Dopo la cena, andiamo a bere una birra con Tommy, Ares e Jar, un americano che partecipa alle gare e che per caso mi ha contattato dicendomi che si trovava a Taipei. Che strana coincidenza.

con jar

Da martedì passiamo a venerdì. Tutto il giorno pasato con Ares e Etta, che mi hanno letterlamente viziato, come un bambino. Prima mi hanno offerto un pranzo spettacolare in un piccolo ristorante coreano, dove il gerente, nella più grande leggerezza, mi ha pure aiutato a mischiare la mia zuppa, come se fossi un rimbambito (chiaramente tutti ridevamo).

Poi mi hanno portato al tempio di Confucio di Taipei, autentico gioiellino storico. Ho addirittura potuto porre una domanda alla divinità, che mi ha risposto in maniera più che positiva (ma chiaramente non vi dirò che cosa ho chiesto).

infine, dopo avermi ancora offerto un caffé e una bevanda tipica fatta di fagioli verdi, mi hanno riportato all’ufficio dove lavorano per Tommy. Il posto è molto accogliente, ci sono tutti i vari premi vinti dal campione taiwanese e pure posto per dormire. Insomma, un vero appartamento. Quando Tommy arriva, quasi non credo ai miei occhi. Non me ne ero accorto prima, ma fra tutti i premi, uno di loro mi colpisce particolarmente: la torcia olimpica di Londra 2012. Io sgrano gli occhi, lo guardo, poi riguardo la torcia, poi guardo Etta che si mette a ridere per la mia espressione esterrefatta. Chiedo allora di poterla prendere in mano. La tolgo dal suo piedistallo e la ammiro da vicino. Ce ne sono solo 2 mila esemplari in tutto il mondo. Ma perché, se lui non è andato alle olimpiadi, a potuto correrci? Tommy allora si apre, mi racconta della sua malattia. Un cancro benigno alle ghiandole salivari che fortunatamente è stato esportato senza conseguenze drammatiche. Ma la cosa incredibile è che lui, dopo essere stato esortato a smettere di correre per il rischio di una ricaduta, ha alzato la testa, come ha fatto quando eravamo insieme nel Gobi, e ha continuato a correre, alla faccia di tutti gli esperti che lo davano per spacciato. Ed è così che il comitato olimpico taiwanese gli ha concesso il privilegio di correre per 300 metri con la torcia olimpica sulle strade di Londra 4 anni fa. Che forte. Mi emoziono quando mi dice che dopo quello che gli è successo apprezza molto di più la vita, la affronta sempre con il sorriso e quando ha visto il gesto che ho fatto per lui non aveva parole.

io torcia

Dopo una visita al centro Runbase, gestito da I-mai, sponsor di Tommy, mi devo congedare e incontrare Adriano e Ivano, due taiwanesi che parlano italiano. Li invito a cenare con me per parlare di argomenti politici. La serata, molto piacevole, si conclude verso le 10. Sono cotto ma l’indomani si va a correre con Tommy e il suo team perciò bisogna riposare.

Sabato mattina, alle 7.30, sono già pronto alla fermata del metrò per aspettare i ragazzi e partire per il nord dell’isola. Teoricamente Tai-Pei significa “il nord di Taiwan”, perciò la città sarebbe Taipei City per specificare. Piccola lezione modesta di mandarino, che non capisco proprio e mi spaventa solo all’idea di provare ad impararlo (anche se aprirebbe le porte a un mondo spettacolare).

Andiamo nelle montagne. Il clima è già fornace e appena stai in una zona senza aria per più di 2 minuti vedi i tuoi vestiti macchiarsi di un’inevitabile macchia di sudore. Almeno per me, grande sudatore, questo clima è davvero insopportabile. Ma fa parte del gioco.

prima di allenamento

Partiamo io Tommy e un suo allievo. Etta e Ares prendono il sentiero al contrario. Ci incontreremo ad una stazione ferroviaria dopo circa 12km. Il percorso è tecnico ma corribile. Tommy non va in fretta, ma ce la prendiamo comoda. Ci fermiamo ad osservare il paesaggio e la strada. Tommy deve creare un percorso che servirà poi da allenamento per un “camp” di trail-running. Il suo allievo fa foto e segue le istruzioni del maestro in materia di gestione dello sforzo e di tecnica di corsa. Passiamo di fianco a cascate mozzafiato, panorami montagnosi bellissimi e strutture decadenti per via degli uragani ma anche per la loro vecchiaia.

Alla famosa stazione, posta dopo una discesa che sembrava una pista di pattinaggio dal momento che sugli scalini c’era più muschio che sasso, ci fermiamo per aspettare le ragazze. Ares è già lì che ci aspetta. Partiamo dopo una ventina di minuti per andare a cercare Etta, che non arriva. Corriamo sui binari della ferrovia. Insomma, una pazzia ma che vale veramente la pena. Quando sentiamo il treno ci mettiamo al lato. Bisogna fare attenzione soprattutto alle gallerie. Che forte!

sui binari

Dopo esserci rinfrescati nel fiume, siamo partiti per l’oceano. A Yilang, location famosa per il surf, ci mettiamo sulla spiaggia in costume da bagno ma non resistiamo alla tentazione di metterci anche noi a fare un po’ di surf. Ricordi vaghi di un viaggio alle Hawai’i di qualche anno fa, riesco a prendere qualche onda e mi diverto come un bambino. Dopo il calar del sole e la cena, a base di frutti di mare (sempre squisito), ci dirigiamo verso la capitale. La colonna è ancora molta. Arriviamo a mezzanotte a casa, io non ce la faccio più, domani mi toccherà un viaggio di 20 ore per attraversare il pacifico e arrivare fino a Los Angeles.

LEI arriva tardi stanotte, ma resta con me e mi accompagna all’aeroporto l’indomani mattina. Un arrivederci a Taiwan è d’obbligo. Sicuramente non sarà un addio. Ho trovato tutto qui. Felicità, amore, amicizia, voglia di scoprire. Sono superficiale, lo so, ma non riuscirò mai a trasmettere le mie vere emozioni.

Negli Stati Uniti mi allenerò in Colorado per un mese e poi un altro mese lo passerò un Cile. Che bello, quest’anno è sempre un sogno.

 

OLéééééé #PIPPA